Libri e mercanti in fiera:
"il caso italiano"

di Maurizio Scordino

«L'Italia sta dimostrando ancora una volta la sua vitalità e anche la Germania ha due fiere: una a Francoforte e l'altra a Lipsia». Basterebbero forse queste parole, pronunciate da uno che di saloni del libro se ne intende: Juergen Boos – patron della Fiera internazionale di Francoforte – per comprendere quanto male, con il nostro eterno provincialismo tutto italiano dei mille campanili, riusciamo a farci da soli. Divisi da sempre in Guelfi e Ghibellini a prescindere: quasi mai nel merito (vedi l’attuale campagna referendaria), assai spesso in base alle personali e sempre faziose simpatie personali. Ancora più del provincialismo, però, il danno ce lo facciamo in continuazione delegando a una classe politica molto spesso incompetente e improvvisata – soprattutto nel campo della cultura, della ricerca e dell’istruzione – scelte che dovrebbero invece appartenere, esclusivamente, agli addetti ai lavori. In questo caso agli editori i quali, a torto o a ragione, assumono sulle proprie spalle ogni tipo di rischio imprenditoriale e, di conseguenza, hanno tutto il diritto di decidere dove e come investire i propri capitali, senza per questo essere accusati di altro tradimento alla tradizione e all’economia locale. Questo, almeno, il parere di Antonio Monaco: titolare delle “Edizioni Sonda” di Casale Monferrato e vicepresidente dell’Associazione Italiana Editori, incontrato qualche settimana fa subito dopo essere rientrato dalla Buchmesse tedesca. Una serie di osservazioni, le sue, che per quanto indirette sembrano voler rispondere alle critiche, anche feroci, seguite alla decisione da parte dell’associazione che rappresenta di allestire già dal prossimo anno una nuova fiera del libro a Milano. Una scelta discutibile? Certo. A patto di discuterne, però, non di gridare.



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